L’inaugurazione del Terzo Polo Universitario della sede di Reggio Emilia sollecita alcune riflessioni sul modello di futuro e di presente che vogliamo abbracciare.

Stiamo certamente affrontando la fase forse più complessa dall’inizio di questa pandemia perché, riprendendo una riflessione recente di Massimo Recalcati, se nella prima ondata le istituzioni siamo stati noi tutti che abbiamo vissuto nel confinamento e abbiamo con questa scelta responsabile frenato il virus, adesso o le istituzioni fanno la loro parte rispondendo al grido dell’inerme e se ne prendono cura, nel modo in cui possono farlo, con sostentamento materiale a chi sta pagando in modo più drammatico questa crisi, oppure noi siamo spacciati. Da qui alla fine del 2021 le imprese a malapena riusciranno a fare fronte a costi per dipendenti e fornitori e nulla più; quindi, salvo che non vi siano interventi mirati e copiosi, non ci saranno i margini di manovra per pensare di versare tributi.

E se è vero che sta a noi imprese accogliere, tra le altre, la sfida del digitale e a noi associazioni di categoria essere di supporto in questo processo formativo, è altresì vero che, come abbiamo incessantemente ripetuto, serve fare in modo che il mercato digitale concorra con le medesime regole per tutti.

Stiamo vivendo un trauma collettivo che ha destrutturato le nostre identità individuali e di imprenditori, una condizione d’angoscia per aver perso potenza e controllo sul nostro avvenire; e quanto è vero che nell’impoverimento non vi è nulla di poetico, allo stesso tempo dobbiamo però con tutte le forze evitare che l’idea falsata dall’aver vissuto questi ultimi decenni confondendo umanesimo e antropocentrismo e libertà individuale con anarchia dell’io incendi i rapporti tra colleghi, dando vita a una sterile guerra fratricida. Sia chiaro: in questo contesto non vi è salvezza individuale.

Il covid ha esasperato l’ineguaglianza alimentando il processo di disgregazione sociale, risultanza anche del fatto che troppo spesso nella comunicazione, in particolare di questi mesi, sono stati tenuti separati i numeri dai nomi. Come dietro ai numeri del contagio c’è un nome e un cognome, così nei numeri dell’economia c’è il nome di una impresa sotto la quale ci sono nomi e cognomi di soci e dipendenti.
Abbiamo sempre ribadito e lo ribadiamo oggi con ancora maggior forza: serve che le istituzioni introducano il desiderio di prendersi cura in un nuovo modo di fare economia, senza sacrificare nel nome dell’ideale il particolare. Il particolare è peculiarità e si badi bene che il nostro concetto di cura non sottintende la mera sussistenza ma il riconoscere la fragilità dell’economia reale, alla quale per troppi anni è stato fatto prevalere la burocrazia, così come, per troppi anni, è stata fatta prevalere la finanza sul lavoro.

Serve una riforma del capitalismo che passi dall’introduzione del desiderio come forza generativa che allarghi gli orizzonti e che sia capace di moltiplicare le forze, perchè la libertà o è solidarietà o è pura mistificazione. Mi riferisco alle tante micro, piccole e medie imprese locali che troppo spesso vediamo trattare come un accessorio da chiudere o aprire a piacimento come se fossero un arredo urbano. Serve la gentilezza di accompagnare le imprese, che sono persone e famiglie, cuore pulsante delle nostre comunità.

Allo stesso tempo abbiamo la responsabilità, come imprenditori, di essere in grado di accogliere il cambiamento con dinamismo, competenza, visione e, non per ultima, la capacità di fare rete.

Vi è consapevolezza che la violenza ecocida dell’uomo mescolata alle pulsioni neoliberiste ha generato il capitalismo dell’incuria. Rischiamo però troppo spesso di avere reazioni ecologiste che, come tali, non hanno i crismi della risposta.

Noi continueremo a fare la nostra parte di corpi intermedi, in ascolto per portare sui tavoli del confronto istituzionale le nostre istanze e continuando a dare supporto informativo e formativo alle imprese, ruolo per il quale non ci siamo mai risparmiati.

Ora però serve davvero una fase di unità, servono interventi concreti e serve che le istituzioni non restino passive ad osservare la guerra tra fragilità. Serve invece che esse cerchino di contagiare col desiderio e l’esempio di unione per moltiplicare le forze, col vantaggio e la consapevolezza di essere alla guida di una comunità di persone – uomini, donne, imprenditori – che hanno sempre avuto nel dna, tra le altre doti, quella della tanto declamata resilienza.

Davide Massarini
Presidente
Confcommercio-Imprese per l’Italia
Reggio Emilia